Essere padre esprime in se stesso il ricordo del passato e l’attesa del futuro. Il tempo del padre non è morto, riflette il ricordo di una promessa che deve realizzarsi. E’ molto semplice sentirsi figli di una madre, molto più difficile riconoscere il padre. Ma senza padre non comprendiamo veramente il nostro essere nel mondo: il dolore, la giustizia, la fatica, la lotta, la perdita, la vittoria. L’altro e l’Altro rischiano di essere fantasmi, impigliati nella maledizione di vivere egocentrati, puer aeternus. E scontenti.
Insieme all’Illiade e all’Odissea, l’Eneide è un’opera fondamentale per comprendere l’origine dell’Occidente. Uno degli aspetti più interessanti del libro di Virgilio è la mancanza di adulazione e la presenza di una sobrietà stilistica e morale: l’eroe protagonista è umile di fronte alla storia e rispettoso del volere divino, soprattutto nelle vicende avverse. Enea era perciò il perfetto progenitore, colui che avrebbe nobilitato la storia di Roma e la figura di Augusto. All’interno dell’Eneide, il capitolo secondo esprime pienamente la missione del padre.
La guerra di Troia era arrivata al decimo anno e i Greci avevano abbandonato il campo di battaglia, lasciando sulla spiaggia il famoso cavallo di legno, la presunta offerta votiva che solleticava la vanità degli assediati. I troiani portando il dono all’interno delle mura si condannarono alla disfatta. La storia di Enea e del suo viaggio inizia qui.
Enea viene avvertito in sogno di lasciare la città ormai devastata dai Greci: deve fuggire e prendere ciò che gli è più caro, la sua famiglia e gli dei sacri, i Penati, che rappresentano l’identità del suo popolo. Le fiamme avvolgevano le case e i combattimenti diventavano sempre più violenti: le possenti mura non difendevano più il popolo di Priamo. In questa situazione disperata, Enea ha un moto di ribellione e dimentica il suo ruolo, la sua missione, la sua responsabilità. Enea vuole lottare, vuole buttarsi selvaggiamente nella mischia, come un leone sente una forza travolgente
Corsi, folle, all’armi
Eneide, Libro II
né ancor sapevo se giovasser l’armi;
sol mi tardava di accozzare un pugno
d’uomini, di combattere, di accorrere
con compagni alla rocca: ira e furore
l’animo mi travolsero, e pensai
che pur bella è la morte in mezzo all’armi.
Fronteggiando il nemico si deve decidere: è meglio combattere per l’onore, rischiando la morte, o pensare al futuro, alla continuità della famiglia e del popolo? Enea sembra Achille: vuole combattere, difendere e attaccare, dimostrare, guadagnare gloria, lasciare andare il suo impeto passionale, vendicarsi dei suoi nemici, vendere cara la pelle. Un impulso guerriero sembra dominarlo e portarlo al sacrificio eroico della sua vita. Virgilio a questo punto fa emergere un altro destino per Enea. La sua paternità. Per convincerlo a non assecondare il suo impeto di sangue, intervengono la visione di Ettore, la madre Venere, lo spirito di Creusa. Per comprendere il significato e la prospettiva della vocazione è necessario essere circondati dalla famiglia, dalla società dalla comunità. Passare dall’impulsività alla razionalità richiede uno sforzo esistenziale. Enea è chiamato ad una scelta: continuare a combattere fino alla morte con i suoi compagni contro i suoi nemici o ritirarsi dalla lotta, fuggire, e salvare la stirpe? Non è possibile diventare padre, caricarsi della pesantezza del padre, senza rinunciare alla leggerezza di essere figlio, senza tagliare con la mentalità irresponsabile di chi non deve rispondere a nessuno. L’immagine della fuga di Enea è emblematica: sulle spalle il padre Anchise, in basso vicino alle sue forti gambe il piccolo Ascanio. Enea è in mezzo, sopportando il peso del padre e supportando la corsa del figlio. L’eroe non abbandona solamente un destino di morte ma inizia una storia di vita, lontano dall’orda dei combattenti, simbolo di un’adolescenza che si spegne solamente con la presa di coscienza della propria vocazione. La forza del padre non è in se stesso ma nella storia che gli appartiene.