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La corsa di Pasqua

Siamo tutti stanchi e appesantiti: soffriamo la ripetizione statica di giorni senza incontri, senza contrasti, senza progetti. Immobili, seduti, distesi. Forse morti. Non fisicamente (ancora). Comunque passiamo il tempo a guardare vite diverse dalle nostre e a interagire socialmente con sconosciuti senza volto. Fantasmi digitali distanti anni luce dalla nostra realtà, dai divieti e dalle restrizioni. In tv sembrano ancora tutti felici. Nella scatola, i bambini corrono senza mascherine e i baci si prendono e si danno senza paura. Dall’altra parte dello schermo invece le malattie spirituali aumentano e fanno danni incalcolabili. Si nascondono e si trasformano. Non stiamo bene e, di conseguenza, abbiamo poco tempo per gli altri pur avendo tanto tempo a disposizione! Siamo incattiviti dalla cattività. Siamo caduti in un’accidia pandemica. Per i monaci medievali l’akedia è un’atonia dell’anima, un’irrequietezza interiore, un veleno tossico. In un certo senso è la manifestazione più eclatante del peccato di Adamo: l’accidia come espressione spirituale dell’amore per se stesso e il rifiuto di Dio. Il tempo dell’accidioso è lento, monotono, mentre lo spazio è angusto e deprimente. Le sue azioni sono spesso inconcludenti: cambia spesso opinione, è volubile, non porta i suoi progetti a conclusione. Pensa esclusivamente a se stesso: è negligente. Parimenti non cresce, rimane infantile, perché gli altri non li vede, non li sente, non li ama. Come tratteggia con sapienza Evagrio, il monaco caduto nell’accidia sperimenta una profonda paralisi interiore

Il demone dell’acedia, che viene chiamato anche «demone di mezzogiorno», è di tutti i demoni il più opprimente. Attacca il monaco verso l’ora quarta e accerchia la sua anima fino all’ora ottava.

Dapprima fa sì che il sole sembri lento a muoversi, o sia immobile, e dà l’impressione che il giorno abbia cinquanta ore.

Inoltre gli ispira avversione per il luogo e per la stessa vita [di monaco] e per il lavoro manuale, e [gli suggerisce] che l’amore è svanito tra i fratelli e che non c’è nessuno per consolarlo.

Evagrio, Praktikos

Il termine Pasqua deriva dall’ebraico pesàch e vuole dire passare oltre. Per il popolo ebraico la Pasqua è il passaggio dalla schiavitù alla liberazione e viene celebrata ricordando l’uscita del popolo d’Israele dall’Egitto. In una notte l’angelo sterminatore passò uccidendo i primogeniti degli egiziani e risparmiando gli Ebrei. In una notte il popolo d’Israele uscì in fretta dall’Egitto per dirigersi verso la libertà. In fretta il popolo attraversò il Mar Rosso, correndo verso la terra asciutta mentre i carri e i cavalieri egiziani precipitavano nel mare. La Pasqua è una festa di movimento!

Anche nel Vangelo la mattina di Pasqua tutti corrono come matti! Il Vangelo di Giovanni descrive un frenetico andirivieni: Maria di Magdala è la prima che corre. Vede che la pesante pietra era stata rimossa dal sepolcro e non crede ai suoi occhi. Deve dirlo a qualcuno e cerca gli apostoli, incontra Pietro e il discepolo che Gesù amava. Inizia un’altra corsa. Pietro corre piano: forse per l’età. Sicuramente ha qualcosa da farsi perdonare ma non può rimanere indietro. Il giovinetto invece ha le ali ai piedi, forse è più allenato o, semplicemente, ama davvero Gesù e non vede l’ora di rivederlo dopo essere stato sotto la croce. La loro corsa non è salutista, non fanno jogging. Corrono perché hanno compreso che la vita non è semplicemente essere in funzione, stare bene, non avere problemi. Corrono perché vogliono vedere, vogliono sperimentare che realmente Cristo è risorto: la croce che aveva distrutto il loro amore, la loro fede, la loro speranza non li ha inchiodati per sempre: il passaggio è avvenuto, la morte è stata vinta. Per sempre.

Oggi è Pasqua. Alziamoci. Muoviamoci. Usciamo. Corriamo. Rendiamo grazia a Dio per il dono della vita.

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