La risposta alla domanda per chi soffrire è illuminante.
Viviamo i nostri giorni nella frenesia, nella ripetizione, nel consumismo, nell’alienazione fino a quando un evento non rischiara le nubi della nostra confusione: il presupposto fondamentale della vita non è la sua inesauribile durata ma la sua precarietà. La perdita del lavoro, una relazione finita, la morte, sono esperienze che ci obbligano a confrontarci con la nostra visione distorta della realtà. Guardare un figlio che soffre in Ospedale chiedendo continuamente: perché proprio io? perché devo soffrire? attacca alla radice la pianta velenosa dell’indifferenza, cresciuta negli anni dentro le sacche più recondite del nostro egoismo. Le risposte preconfezionate non funzionano: l’attesa di una parola vera, esaustiva, guarente, l’attesa di tornare alla normalità, di non voler più essere rassicurati ma di veder sconfitto il dolore, laddove diventa intenso, ridondante, incontrollabile, assurdo, l’attesa di un salvatore, delimita il campo di credibilità delle persone che si amano. La sofferenza per qualcosa, in divenire, come passaggio obbligato verso un avvenire migliore, i sacrifici lacrime e sangue di bismarckiana memoria, la sofferenza adulterata, materializzata, idealizzata, addirittura celebrata, è una panacea, un sotterfugio che l’uomo postmoderno ha voluto creare per fuggire la domanda più profonda, vera e proibita: per chi soffriamo?
Questa visione alternativa l’aveva già trovata Pascal. Il genio matematico, profondo uomo religioso, morì giovane dopo anni di indicibile malattia. La sua ricerca di un senso, di un significato e di una direzione nella precarietà della vita, si conclude con una bellissima preghiera
Fà che io mi auguri salute e vita
soltanto per impiegarla
e concluderla per te, con te e in te!
Non ti domando nè salute,
nè malattia,
nè vita, nè morte;
ma che tu disponga della mia salute,
della mia malattia,
della mia vita,
della mia morte
per la tua gloria,
per la mia salvezza
e per l’utilità della Chiesa.
B. Pascal, Per domandare a Dio il buon uso della malattia
Senza un chi, possiamo dare il senso più autentico alla sofferenza? Non rischiamo di deumanizzarla, rinchiuderla dentro uno spiritualismo vuoto, una idealizzazione narcotizzata, un placebo materialista? Non si gioca su questo campo una delle partite più importanti per il Cristianesimo post moderno? Da un lato infatti il treno della secolarizzazione sembra arrivare presto anche nelle più insospettabili stazioni, facendo scendere, molti ignari fedeli, nelle città dell’ateismo e del nichilismo. Di fronte allo scandalo della sofferenza le chiese non sono piene di cristiani in crisi, infantili e spesso allineati alla logica mondana, prossime alla stessa eutanasia?
Per alcuni infatti esiste Dio ma non esiste il male: sono coloro che banalizzano l’esistenza, applicandosi nella teodicea, nella conciliazione degli opposti: come Pangloss amano dire che questo è in fondo il migliore dei mondi possibili. Per altri invece non esiste Dio ma esiste il male: sono i nichilisti che hanno decretato la morte di Dio e consumano la sua eredità, svuotando di senso la realtà. Infine ci sono i tanti seguaci dell’ateismo consolatorio: non c’è Dio, non c’è il male. Non c’è più sofferenza, negatività, al massimo siamo pieni di sensi di colpa e ci curiamo con i farmaci o con lo psicologismo. Altrimenti ci affidiamo al naturalismo, un darwinismo eterodiretto che ben si accompagna alle nuove frontiere tecnologiche. Esiste però una categoria che si è aggrappata alla tradizione cristiana, consapevolmente o inconsapevolmente: siamo all’interno di un pensiero tragico, in cui si ammette l’esistenza sia di Dio sia del male, e vede nella sofferenza, umana e divina, il solo modo per riscattare e vincere il male. Un cristianesimo attuale e problematico, un cristianesimo della sofferenza, ma non masochistico o infantile. Un cristianesimo che si rende conto della scelta sofferta e continua che richiede la testimonianza di fede, in contrapposizione ai molti cristiani abitudinari. Ricordando un pensatore decisivo per l’ermeneutica della libertà come Pareyson, la sofferenza e il sacrificio di Cristo sono inseparabili dalla redenzione e dalla resurrezione.
Per chi soffrire?
La libertà dell’uomo determina uno stravolgimento della realtà: si può fare il male e si può fare il bene. Ma introducendo il male nel mondo, l’uomo provoca al tempo stesso e inevitabilmente la sofferenza, la quale per Pareyson non costituisce una punizione, bensì rappresenta l’unica forza «più forte del male». Cristo introduce nella perfezione di Dio il dramma della sofferenza, perché ha voluto essere un sacrifico di espiazione affinché l’uomo potesse essere salvato. Allora la sofferenza diventa, nella dimensione trinitaria di Dio, un prius ontologico, una caratteristica fondamentale che precede la perdizione del peccato originale, che mette in relazione, in solido, Dio con se stesso e con gli uomini. E soprattutto per gli uomini.
Sembra allora risuonare il monito di San Paolo che si fa predicatore di Cristo crocifisso di fronte alla ricerca di miracoli e di segni: oggi di fronte al mito del progresso, del benessere e della cupidigia, vale allora la pena ricercare un chi a cui donare la nostra sofferenza, guarendo dalla presunzione di aver salva la vita nella sua sterile ed egoistica conservazione. Nella sofferenza divina l’uomo può trovare la via, la verità e la vita della sua stessa sofferenza.
Pensieri e parole che risuonano e lasciano il segno, donando tempo per meditare, mentre il mondo invita a correre per non fermarsi a pensare, a riflettere, a porsi domande e a trovare risposte di senso.