In un saggio del 1933 intitolato Esperienza e povertà, Walter Benjamin introduce così il tema della povertà:
Abbiamo ceduto un pezzo dopo l’altro dell’eredità umana, spesso abbiamo dovuto depositarlo al Monte di pietà a un centesimo del valore, per riceverne in cambio la monetina dell’ “attuale”.
Abbiamo ceduto i nostri beni, la ricchezza della tradizione, il sapere degli antichi, l’identità storica della nostra civiltà, per ricevere in cambio piccole biglie di vetro di un progresso insipiente. Eredi irresponsabili di impagabili tesori, ci siamo recati al Monte della pietà per accontentarci degli spiccioli, costruendo sistemi di valori fluidi, appiattiti sul possesso e non sul bene. La povertà è diventata solamente una questione economica e finanziaria. Ai più sfugge la profondità e la gravità della questione, per l’irriducibile tendenza a facilitare la vita, a renderla funzionale, smart . Eppure. Eppure la povertà è più onesta nel raccontarci la bellezza e l’assurdità della vita. Il divenire poveri o ricchi non è infatti soltanto una questione di denari.
Il mondo non è quello che potrebbe o dovrebbe essere. La sedia su cui sono seduto è un’ombra della Sedia vera, perfetta nella sua realtà immutabile. L’essenza della Sedia non coincide con l’essenza della mia sedia. La sedia su cui sono seduto è una sedia diminuita, meno perfetta, meno ideale rispetto all’essenza della Sedia. In altre parole il mondo in cui ci muoviamo, è un mondo dialetticamente imperfetto, la realtà materiale che giudichiamo vera è una realtà effettiva ma meno completa. La realtà è povera: se non avessimo in mente l’immagine, tutt’altro che astratta, di una realtà soleggiata (platonicamente), allora non potremmo dire che la realtà è mancante di qualcosa. Viviamo in una realtà precaria, bisognosa, povera, in cui costantemente ci mettiamo in ricerca di un’aggiunta.
La filosofia nasce come desiderio di completezza, come ricerca di un sapere autentico, stabile, incontrovertibile. La povertà è stato e premessa della filosofia. Altrimenti non sarebbe, perché mancherebbe della sua evidente inutilità e, conseguentemente, della sua ricerca di qualcosa. Sofista diventa invece il filosofo che non accetta la precarietà della realtà, colui che la relativizza a semplice interpretazione. Com’è possibile essere poveri? Questa la domanda della filosofia. La “realtà” (la povertà) è una possibilità, non una necessità, per quanto si tratti di una possibilità così pervasiva da apparire come l’unica data, dunque come una necessità. D’altra parte, infatti, la povertà per la filosofia è anche una scelta. Esiste un livello più profondo di povertà?
Uno dei più grandi pensatori medievali ha riflettuto lungamente sullo scandalo evangelico della povertà. Scrive Meister Eckhart nei Sermoni tedeschi
Tutti gli angeli, e tutti i santi, e tutto ciò che è nato, deve tacere quando parla questa eterna sapienza del Padre, perché tutta la sapienza degli angeli e di tutte le creature è un puro nulla di fronte all’abisso senza fondo della sapienza di Dio. Essa ha detto che i poveri sono beati.
Commentando il passo del Vangelo, Eckhart afferma che la massima gioia appartiene ai poveri. Quali poveri? Come riconoscerli? Eckhart enuncia dunque un brillante paradosso: per capire la povertà nello spirito bisogna a propria volta essere poveri nello spirito. Senza questa condizione, senza questo stato, senza questo francescano matrimonio con Madonna Povertà, allora è impensabile essere beati. Solo a chi già viva nella condizione di povertà è aperta la strada della sua comprensione: a rigore, dunque, quel Vangelo si rivolge solo a coloro cui probabilmente nulla importa di comprenderlo. Perché lo stanno già praticando.
Cosa significa essere poveri nello spirito? Eckhart scrive chiaramente: povero è quell’uomo “che niente vuole, niente sa, niente ha“. Niente vuole significa che l’uomo non vuole più fare la volontà di Dio perché non la riconosce più come qualcosa di esterno e separato da sé, non sta cioè eseguendo il comando di un altro, ma la scopre come sua volontà, sua realtà. Non obbedisce più, perché intenzionalmente sa già quello che deve fare. Niente sa, perché è svuotato, ha sperimentato una kenosi, è dunque nel totale riempimento divino, perché come dice Eckhart: “quando l’uomo stava nell’eterna essenza di Dio, niente altro viveva in lui; cosa là viveva, quello era lui stesso“. Niente ha, richiama alla mente la vita di San Francesco di unirsi alla povertà, un matrimonio fecondo in cui non avviene propriamente una scelta in cui si conoscono i contorni dell’agire. La povertà di spirito è essere privi di tutto: la non conoscenza assoluta, la totale incoscienza. Non avere niente: non avere beni, conoscenze, affetti, poteri, non averli nel senso di non potersi appoggiare su questi elementi, non avere fede nel loro aiuto e sostegno. Vivere nel mondo con una sapienza nuova e antica, senza la monetina dell’attuale. E aprirsi alla beatitudine.
Molto profondo Meister Eckhart!
La bellezza della povertà che racchiude già tutto in sé è la porta della beatitudine.
Grazie per la ‘possibilità’ di riflessione sulla povertà ‘scelta’ per questo articolo.