Egregio signore, la povertà non è vizio, questa è una verità. So che anche l’ubriachezza non è virtù, e questo è ancor più vero. Ma la miseria …, la miseria è un vizio. In povertà riuscite ancora a conservare la nobiltà di sentimenti in voi innati, ma in miseria invece mai nessuno ci riesce. Quando si è in miseria gli altri non prendono nemmeno il bastone per scacciarvi, ma con la scopa vi spazzano via dalla compagine umana, perché l’offesa risulti ancora più oltraggiosa: e a ragione, in quanto nella miseria io per primo son pronto a oltraggiarmi. Dostoevskij, Delitto e castigo
Raskol’nikov è il protagonista di Delitto e castigo, un superuomo ideale. Il giovane studente è un idealista pietroburghese estremamente intelligente che, a causa della sua situazione economica, pianifica l’omicidio di una vecchia usuraia. Oltre a liberarsi della donna, Raskl’nikov vuole liberare il mondo da una persona diabolica, per fare del bene agli altri con i beni e le ricchezze della defunta. In un certo senso vuole porsi al di là del bene e del male, vuole decidere chi salvare e chi condannare. La sua intelligenza non lo salverà, anzi il tormento e il rimorso per la sua azione malvagia lo accompagneranno al castigo. La sua infatti era una finta povertà. La povertà non è come l’ubriachezza, nella quale ogni bevuta contribuisce ad abbrutire il bevitore; nella povertà si può mantenere una nobiltà, una dignità di sentimenti.
Il termine “povero” discende, etimologicamente, dal latino pauper o pauperus che, a sua volta, richiama un altro vocabolo: pauca e pariens, letteralmente “che produce poco”. La povertà era così già messa in relazione con il suo opposto, la fertilità. Nel campo agricolo si è consapevoli che il raccolto è strettamente legato alla generosità della terra: in parte il contadino semplicemente “assiste” la natura. Il povero non è quindi un misero. Nel mondo romano antico pauper era chi aveva un tenore di vita molto sobrio, ma decoroso, dignitoso, mentre il miser descriveva qualcuno che viveva in modo già indecoroso e privo di dignità, anche solo dal punto di vista materiale. Per Tommaso D’aquino, la povertà rappresenta la mancanza del superfluo, mentre la miseria indica la mancanza del necessario. La povertà è la condizione umana. Condizione vergognosa da combattere.
Nell’attuale mondo occidentale, la povertà è considerata come la conseguenza delle colpe e delle inettitudini degli stessi poveri, colpevoli di venire meno al dovere di possedere sempre nuove merci. Nel mondo consumistico, il povero è colui che non ha, colpevole di non spendere abbastanza. Non c’è posto per i poveri, sono un peso, occorre lottare contro la povertà, perché il povero non è un ricco. Chi ha vive nel benessere, lontano dalla povertà. Non cerchiamo tutti un arricchimento anche nelle esperienze che facciamo? Non abbiamo una mentalità capitalista anche con gli affetti che frequentiamo? Chi accetta oggi di essere povero e insegna agli altri l’arte della povertà?
Eppure nella mitologia greca, Penia è la madre di Eros, l’amore è figlio della povertà. Povertà genera amore: chi è innamorato cerca sempre l’altro, ha bisogno dell’altro, manca dell’amore dell’altro e lo desidera. Chi possiede tutto non ha bisogno di niente. L’amore, per Platone, assomiglia a sua madre: è duro, abituato alla vita dei poveri. Vive alla giornata: nasce e muore come un fiore.
Amore non è né bello né delicato, come pensano molti, ma a somiglianza della madre è duro, scalzo, peregrino, usa dormir nudo per terra e con la miseria sempre in casa. Platone, Simposio
Se con la crescita esponenziale del benessere avessimo perduto la capacità di essere poveri? La povertà è umanizzante, ci mette nella giusta direzione, forse l’unico vero autentico argine della miseria. Riconoscere e valorizzare l’improduttività rappresenta un antidoto a quel mito del progresso che ci vuole efficienti, rappresenta la cura nei confronti di quella terribile malattia che è l’egoismo. La povertà è costitutiva della stessa umanità, implica una debolezza, un’indigenza per tutti: quella per cui nessuno è sufficiente a se stesso e tutti hanno bisogno gli uni degli altri.
Dio stessi ha scelto la povertà in Cristo. Beato chi è nella condizione di poter amare. Non riusciamo a comprendere come funziona la sapienza di Dio: il dare tutto pur essendo bisognoso. Vogliamo essere ricchi e non vogliamo essere poveri. Beati i poveri di spirito!
Per poter procurare l’unità, bisogna che Dio diventi come il più povero discepolo. Ma il più povero è colui che deve servire gli altri, e dunque Dio si mostrerà in figura di servo. […] In questo modo si ritrova a stare Dio sulla terra: fatto uguale al più povero a causa del suo amore onnipotente […]. Il Dio deve soffrire tutto, sopportare tutto, sperimentare tutto, avere fame nel deserto, avere sete nei tormenti, venire abbandonato nella morte, assolutamente uguale al più umile – ecce homo; infatti la sua sofferenza non è quella della morte, ma questa vita intera è proprio una storia di sofferenza; ed è l’amore a soffrire, l’amore che dà tutto e che è esso stesso bisognoso. S.A. Kierkegaard, Briciole di filosofia
Commento profondo che risveglia la bellezza di essere e farsi poveri per incontrare gli altri e l’Altro.