Passione

La passione non è tanto la negazione della ragione quanto la sua proiezione. La passione è l’ombra che rivela l’uomo, ciò che lo rende presente nel mondo. Storicamente si è sempre cercata una sorta di contrapposizione tra la ragione e la passione ma forse occorre parlare di complementarietà.

La passione simboleggia un momento di profonda sofferenza, una pena o un travaglio come si evince dalla sua etimologia latina e greca. Ma in senso più comune indica un desiderio, un trasporto dell’animo che il pensiero ha sempre contrapposto al logos, alla ragione, come le due forze polarizzanti dell’uomo.

La passione ha un duplice funzionamento: si subisce nel patire ma è capace di muovere se vissuta in rapporto alla ragione. Nel Fedro, Platone espone la sua concezione tripartita dell’anima. L’anima viene descritta come una biga alata guidata da un nocchiero e trainata da due cavalli. Ci sono cavalli migliori e peggiori ma il rapporto tra i cavalli e il nocchiero sono sempre basati su un dinamismo tripartito. Il cavallo bianco è l’istinto che vola verso l’alto, in direzione dei beni spirituali. Il cavallo nero è ribelle, pronto a buttarsi in basso verso la cupidigia. Il nocchiero cerca di guidarli, come la ragione che cerca di dominare gli istinti. Dunque l’anima subisce la forza trainante dei cavalli, patisce la fatica di guidarli con la ragione. Ma senza i cavalli non c’è movimento, senza cavalli l’anima rimane ferma senza poter contemplare la perfezione dei mondi ultra celesti. D’altra parte anche nella tragedia greca la passione è un elemento imprescindibile. La figura di Medea è emblematica. Nell’opera di Euripide è una donna vittima del pregiudizio e del rifiuto, una donna investita dalla forza di una vendetta incontrollabile. Per vendicarsi di Giasone e della sua utilitaristica ascesa sociale, Medea uccide con una ghirlanda di fiori avvelenata la giovane rivale nel giorno delle nozze. Non sazia del suo piano, si macchia del crimine più terribile, troncando l’ultimo legame con l’uomo che l’ha tradita: dopo averli abbracciati per l’ultima volta, uccide i figli e fugge nel cielo scomparendo, lei discendente del Sole e della Luna, del duplice volto della passione. La pazzia incestuosa, la frenesia cieca di vendetta, lo smarrimento e il lamento impotente di fronte alla sventura, rendono Medea una donna che soffre nella sua fragilità, nella sua solitudine.

Con Gesù Cristo la passione trova il suo compimento: si soffre per attuare un passaggio necessario. Se rappresenta la massima sofferenza umana che si può subire (tradimento, condanna, flagellazione, crocifissione dell’innocente) la Passione di Cristo è anche il più alto grado di amore che si è mai realizzato: se il chicco di grano non muore non può portare frutto. Nel film Passion di Mel Gibson, il corpo insanguinato di Cristo provoca ribrezzo, scandalo. Tutto quello che Cristo ha patito nel suo Calvario ha trasformato la storia dell’umanità, per questo nel mondo occidentale abbiamo un prima e un dopo Cristo.

Oggi la passione è il “peperoncino della vita”, serve per godersi la vita. Bisogna fare tutto con passione! Essere fedeli  ai propri desideri, insomma a se stessi, è uno dei valori dell’io adulto, consapevole delle proprie possibilità cognitive e pratiche. A partire da Cartesio la passione dominante è l’amore per se stessi, per la propria ragione: le passioni diventano tutte buone purché se ne abbia il controllo. Questa moderna maturità passionale deve fare i conti con le leggi della civiltà che nasce dall’umiliazione delle passioni. Anche Freud nel Disagio della civiltà  trova che “l’uomo civile baratta una parte della propria felicità possibile con la sicurezza”. La passione che doveva essere liberata nell’età matura della civiltà finisce per essere repressa! Senza patimenti l’amore è un bicchiere di acqua fresca, nessuno ama più pur pretendendo continuamente amore dagli altri, pretendendo quel fuoco passionale che alimenta sterili narcisi.

La passione è dunque collegata profondamente con la miseria umana, con quella condizione che rende l’uomo una creatura precaria in cerca di redenzione. Victor Hugo ha narrato le vicende dell’uomo crocifisso nella sua grandiosa opera I Miserabili. All’interno dell’opera, la figura di Jean Valjean è una sintesi perfetta di chi patisce per amare e ama per patire. Jean Valjean all’inizio del romanzo finisce in carcere per aver rubato un tozzo di pane, miserabile tra i miserabili. Dopo parecchi anni torna in libertà ma si scontra con il rifiuto della società. Stanco e incattivito dalle avversità viene ospitato a casa del vescovo di Digne. Valjean, seguendo il suo istinto di sopravvivenza, ruba l’argenteria del prelato, fugge nella notte ma viene arrestato. Inaspettatamente è graziato dalle parole del vescovo che mente alle guardie per difenderlo. Con questo gesto di misericordia si aprono le porte della redenzione. Valjean si converte e vive proteso verso il prossimo. Assiste la malata Fantine negli ultimi momenti della sua sfortunata vita, si fa carico della piccola Cosette, libera il suo acerrimo nemico Javert, muore benedicendo il matrimonio della sua amata figlia: “Nudo uscii dal seno di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!”. Perché Valjean non si ritira in un posto isolato a godere delle sue ricchezze, perché non utilizza la libertà così faticosamente conquistata fuggendo lontano dall’ispettore Javert e dalla sua giustizia inflessibile? Valjean è un uomo “toccato”, un uomo che ha sentito la grazia e ha compreso che per mantenerla in vita dentro di sé si deve offrire agli altri. Non può comportarsi diversamente. Come un agnello vince la furia legalista di Javert, che di fronte alla misericordia non può far altro che suicidarsi, chiudersi di fronte a quel gesto di amore disinteressato di Valjean. La passione travolge queste vite miserabili trasfigurandole: come nel Magnificat, gli umili sono innalzati non per la loro condizione ma grazie alla passione che unisce Creatore e creatura.

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